Ai fini dell’integrazione del reato di pornografia minorile (art. 600 ter c.p.) non è più necessario l’accertamento del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico
Cassazione penale, Sezioni Unite, Sentenza 15 Novembre 2018, n. 51815
Con la sentenza 51815 del 2018 le Sezioni Unite della Cassazione sono tornate ad esprimersi sugli elementi costitutivi del reato di pornografia minorile p. e p. dall’art. 600 ter c.p., ed in particolare sulla necessità o meno del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico ai fini dell’integrazione dello stesso.
Con ordinanza del 30 novembre 2017, la Terza Sezione della Corte di cassazione, ai sensi del comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p., introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, ha rimesso la trattazione del procedimento alle Sezioni Unite, non condividendo il principio di diritto precedentemente enunciato dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 13 del 2000 e seguito in modo costante dalle sezioni semplici.
Con la sentenza del 2000 le SS. UU avevano riconosciuto al reato di pornografia minorile la natura di reato di pericolo concreto, così da ritenerlo integrato solo in quei casi implicanti un concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto
Il Supremo Consesso, con la sentenza in oggetto, dopo una preliminare ricostruzione storico-sistematica dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale del reato p. e p. ex art. 600 ter c.p., ha ritenuto che l’interpretazione proposta dall’orientamento largamente dominante, che aveva sempre ritenuto necessario il requisito del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico, debba ritenersi ad oggi superata sia in ragione dall’evoluzione normativa che dello sviluppo tecnologico.
Afferma la Corte che la “pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione, che implicano facilità, velocità e frequenza nella creazione, nello scambio, nella condivisione, nella diffusione di immagini e video ritraenti una qualsiasi scena, anche della vita privata” rende potenzialmente diffusiva qualsiasi produzione di immagini o video.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI
Sent. Nr. 51815, Ud. Del 31.05.2018, Deposito del 15.11.2018
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico – Presidente –
Dott. PAOLONI Giacomo – Consigliere –
Dott. BONITO F. M. S. – Consigliere –
Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere –
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere –
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Consigliere –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere –
Dott. ANDRONIO A. M. – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.D., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 21/10/2016 della Corte di appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dott. Alessandro Maria Andronio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso chiedendo: per il capo A), l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione, limitatamente alle condotte nei confronti di B.M.M. e P.A., e l’inammissibilità del ricorso nel resto; per il capo B), l’inammissibilità del ricorso; per il capo C), il rigetto del ricorso;
uditi per l’imputato gli Avv.ti A. A. e G. A., che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. M.D. è stato chiamato a rispondere: del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 9), art. 81 c.p., art. 600 bis c.p., commi 2 e 3, perché, in qualità di parroco della basilica di (OMISSIS), aveva indotto alla prostituzione alcuni ragazzi e, in particolare, aveva compiuto atti sessuali con quattro minori, di età compresa tra i 14 ed i 17 anni, facendoli denudare, per guardarli anche mentre visionavano video erotici, palpeggiando i loro organi genitali, masturbandoli e praticando loro dei rapporti orali, con le aggravanti di cui al richiamato terzo comma, rispetto a tre delle persone offese, e di aver commesso il fatto con l’abuso di potere e violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro di culto (capo A); del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 9), artt. 56 e 81 c.p., art. 600 bis c.p., commi 2 e 3, per aver tentato il compimento di atti sessuali con altri due minori, verso il corrispettivo di denaro ed altra utilità economica, in particolare, dopo averli denudati, aveva avvicinato la bocca ai genitali di uno, tentato di toccare i genitali di un altro, ed inviato messaggi telefonici in tema, non riuscendo nell’intento della consumazione del rapporto sessuale orale per il diniego opposto dagli stessi minori, con l’aggravante che uno dei due ragazzi aveva un’età inferiore agli anni 16 (capo B); del reato di cui all’art. 81, comma 2, art. 600 ter, comma 1, con riferimento all’art. 600 sexies c.p., comma 2, perché, utilizzando minori di anni diciotto, aveva realizzato e prodotto materiale pornografico, o comunque aveva indotto minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche, in particolare, dietro compenso di danaro o altre utilità economiche come le ricariche telefoniche, a posare nudi per le foto da lui realizzate, aventi ad oggetto gli organi genitali, con le aggravanti di aver commesso i fatti in danno di minori e con l’abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro di culto (capo C).
I minori sono stati compiutamente identificati nei capi d’imputazione ed i fatti sono stati contestati come commessi in (OMISSIS) fino al (OMISSIS). Solo tre dei ragazzi si sono costituti nei gradi di merito come parti civili. I difensori delle parti civili non si sono presentati innanzi a questa Corte.
1.1. Il Tribunale di Sciacca, con sentenza del 12 giugno 2015, ha condannato l’imputato alla pena di anni 9, mesi 8 di reclusione, ritenuta la continuazione, oltre spese e pene accessorie; per il reato di cui al capo A), la condotta di prostituzione minorile nei confronti di una delle persone offese è stata qualificata come tentativo; per il capo B), è stato escluso il reato nei confronti di una delle persone offese; per il capo C), è stato escluso il reato di pornografia minorile nei confronti di una delle persone offese. L’imputato è stato assolto dai residui reati e condannato al risarcimento dei danni, oltre spese, a favore di due delle parti civili.
1.2. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza di primo grado.
1.3. I giudici – con conforme valutazione rispetto al Tribunale – hanno accertato che l’imputato ha ricevuto vari ragazzi minorenni in parrocchia e, con la scusa di un contratto con la televisione, vantando una parentela importante e predisponendo dei falsi moduli di ingaggio, verso corrispettivo, ha realizzato dei ritratti fotografici o video dei loro genitali e, in alcuni casi, li ha palpeggiati nelle parti intime o ha avuto con loro dei rapporti orali. Ad un certo punto, alcuni dei ragazzi hanno raccontato i fatti ad un giovane che frequentava la chiesa perché interessato ad intraprendere la via del sacerdozio, il quale ha provveduto a svolgere indagini in proprio, realizzando un video con il suo cellulare del percorso seguito per raggiungere la stanza in cui vi erano i dispositivi elettronici dell’imputato, computer e cellulare, trovando le foto e gli altri documenti compromettenti e sporgendo denuncia, subito dopo, all’autorità di polizia; le persone offese hanno confermato i fatti.
2. Avverso la sentenza di secondo grado l’avv. A. A. ha presentato sette motivi di ricorso, mentre l’avv. G. A. ha presentato due motivi di ricorso. In data 9 novembre 2017, l’avv. A.o ha presentato una memoria contenente un motivo nuovo.
2.1. Con il primo motivo del ricorso proposto dall’avv. A., si censura (a) l’omessa motivazione sui motivi nuovi in appello in ordine alla mancanza assoluta della sussistenza del pericolo di diffusione del materiale presuntivamente prodotto in relazione al reato di cui all’art. 600 ter c.p.: si sostiene, sul punto, che il reato è integrato se l’attività si rivolga, anche solo potenzialmente, ad un numero più o meno ampio di fruitori, cosicché colui che produce il materiale pornografico, che non circoli al di fuori della sfera privata, commette piuttosto il reato di detenzione di materiale pedopornografico, di cui all’art. 600 quater c.p. Si lamentano, poi: (b) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sulle pretese omissioni del Commissariato di Sciacca nella fase delle indagini preliminari, in particolare, con riferimento: b1) all’omesso sequestro degli apparecchi telefonici in dotazione alle persone offese, b2) all’omessa verifica dei tabulati telefonici, b3) all’omesso sequestro del telefonino del denunciante utilizzato per girare i due filmati che erano stati riversati sul CD01, smarrito e non trasmesso in Procura, ma poi acquisito in udienza come copia di una copia effettuata da un ispettore di Polizia, b4) alla differenza di contenuto del CD01 rispetto alle sommarie informazioni del denunciante perché mancava uno dei filmati contenuti nell’originaria chiavetta nonché del materiale mai analizzato e verbalizzato, b5) all’uso del computer della madre dell’imputato, durante la perquisizione, per redigere il verbale, contaminando il reperto; (c) la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in ordine all’attendibilità delle persone offese ed ai riscontri delle dichiarazioni stesse, poiché c1) con ragionamento circolare era stata ritenuta la veridicità del narrato accusatorio a partire dalle relazioni omosessuali dell’imputato con maggiorenni, c2) era stato valorizzato il giudizio dei periti, senza confutare in modo convincente gli argomenti critici del perito di parte, c3) erano stati valorizzati alcuni profili discutibili delle dichiarazioni delle persone offese, c4) non era stata offerta una spiegazione sufficiente dell’incompatibilità logica dell’episodio collocato in data 8 dicembre 2009 rispetto alle prove testimoniali e documentali, delle contraddizioni dei narrati, dell’assenza di traumi nelle persone offese, delle censure sulle altre testimonianze, delle artificiosità emerse nella verbalizzazione delle sommarie informazioni testimoniali di parte, attraverso il metodo del copia-incolla; (d) la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla testimonianza e all’apporto offerto dal denunciante, ritenuto attendibile, nonostante avesse girato il filmino volto a precostituire la prova del reato con condotta considerata dagli stessi giudici ai limiti dell’illecito; (e) la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sull’analisi della perizia relativa al computer dell’imputato e della consulenza di parte, sul rilievo che il perito aveva affermato di avere trovato solo un link con il nome di un file uguale ad un’immagine che si vedeva nel filmato, ma non aveva mai detto di avere trovato l’immagine o altre immagini, sicché aveva errato la sentenza nell’assimilazione del file al link, perché la presenza di un link non includeva la presenza del file; inoltre nel cellulare sequestrato non era stata trovata la foto inquadrata nel video dei genitali né vi era traccia informatica che potesse ricondurre a quel file e gli argomenti che avevano escluso la tesi difensiva del complotto non erano convincenti; (f) la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sulla sussistenza di ipotesi alternative, in particolare sul complotto, quando f1) tale emergenza processuale derivava dalle dichiarazioni di alcuni testi oltre che dello stesso denunciante, f2) le persone offese erano legate tra di loro da rapporti di conoscenza ed amicizia, f3) vi era stato certamente un effetto di propagazione della notizia, f4) vi era un conflitto con il denunciante che aveva interrotto il suo percorso vocazionale e con la persona offesa responsabile di furti in parrocchia e coinvolta in episodi per cui era stata pronunciata l’assoluzione.
2.2. Con il secondo motivo di doglianza, si censura la mancata rinnovazione dell’audizione del denunciante. Secondo la prospettazione difensiva, a seguito della perizia informatica era sorta la necessità di risentire il teste per comprendere meglio la dinamica della formazione del video, anche perché il denunciante aveva dichiarato di avere installato e disinstallato un software sul computer dell’imputato per recuperare file cancellati, mentre il perito aveva verificato che il (OMISSIS), alle ore 15,35, era stato installato ed alle ore 15,53 era stato rimosso il “PC inspector file recovery”, programma che consentiva di recuperare i file, a meno dell’uso in mala fede. La difesa sostiene che non vi era la prova che i dispositivi, computer e cellulare, inquadrati nei diversi filmati girati dal denunciante con il suo cellulare erano proprio dell’imputato, posto anche che i predetti dispositivi elettronici non erano protetti da password e v’era la prova che ben 28 dispositivi erano stati collegati al suo computer, di cui solo due di sua proprietà.
2.3. In terzo luogo, si lamenta la violazione dell’art. 600 ter c.p., sul rilievo che le foto, ritenute esistenti nel computer, non erano destinate alla pubblica fruizione, ma vi si trovavano per il soddisfacimento dei bisogni sessuali dell’imputato. Si sostiene che: egli non aveva interesse alla diffusione del materiale che lo riguardava per evitare il naufragio del proprio ministero sacerdotale; il computer si trovava nella sua stanza senza possibilità di connessione ad Internet; il numero di sei foto, presuntivamente rinvenuto, non era tale da validare la sussistenza della condotta criminosa; e ciò, a prescindere dalla circostanza che di tale sequenza fotografica non era stata provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la provenienza e la riconducibilità al suo computer. Ai fini della “diffusione” richiesta dall’art. 600 ter c.p., era necessario accertare se il comportamento del presunto autore del reato fosse suscettivo di creare un fenomeno diffusivo o fosse limitato a costituire il malsano hobby di un singolo individuo.
2.4. Con la quarta censura, si deduce l’inutilizzabilità della prova decisiva, costituita dalle “investigazioni” illecite del denunciante, introdottosi arbitrariamente nell’abitazione dell’imputato, per accedere al suo computer, manipolandolo.
2.5. In quinto luogo, si deduce la violazione dell’art. 191 c.p.p., art. 197 c.p.p., comma 1, lett. d), art. 222 c.p.p., comma 1, lett. d), art. 225 c.p.p., comma 3, art. 233 c.p.p., comma 3, con riferimento all’assunzione della qualità di testimoni dei consulenti del pubblico ministero e all’inutilizzabilità dei risultati della deposizione dibattimentale del 1 ottobre 2014, nonché della relativa consulenza depositata. Si evidenzia, sul punto, che i consulenti avevano partecipato all’assunzione delle sommarie informazioni nel corso delle indagini preliminari, poi erano stati nominati ausiliari dal pubblico ministero, quindi sentiti come testimoni. La difesa sostiene che questi non potevano essere considerati come soggetti che prestavano di fatto e solo occasionalmente determinate funzioni previste dalla legge, perché era evidente la natura stabile, imprescindibile ed “istituzionale” della loro attività di ausiliari.
Mentre la ratio dell’art. 197 c.p.p. sarebbe quella di assicurare la genuinità e spontaneità della fonte testimoniale, al fine di scongiurare il pericolo che il deponente possa rappresentare i fatti secondo una sua elaborazione soggettiva influenzata dall’opinione personale.
2.6. Con il sesto motivo, la difesa deduce la violazione dell’art. 2 c.p., comma 4, artt. 157 e 600 bis c.p., con riferimento alle condotte poste in essere nei confronti delle due parti civili a favore delle quali era stato riconosciuto il risarcimento del danno. Le condotte contestate tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) erano prescritte, al più tardi, per B.M.M. nell'(OMISSIS) e per P.A. nell'(OMISSIS).
2.7. Con il settimo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 62 bis c.p., sul rilievo che non sarebbero stati valutati a favore dell’imputato il comportamento collaborativo tenuto in sede processuale, l’assenza di precedenti, la piena osservanza della misura cautelare, il silenzio mediatico dinanzi ad accuse gravi ed infamanti, l’impegno profuso durante lo stato detentivo in altre attività, tra cui la frequentazione di un corso di laurea, lo stato di salute. Del tutto incomprensibilmente, la Corte aveva menzionato quali elementi ostativi alla concessione del beneficio l’esistenza di precedenti per i reati di falsa informazione al Pubblico ministero e simulazione di reato, fatti risalenti ad oltre 20 anni prima.
2.8. Con il primo motivo di doglianza proposto dall’avv. A., si deducono vizi di motivazione, nonché l’erronea applicazione degli art. 192 c.p.p., comma 2, e art. 600 ter c.p., comma 1, con riferimento alla prova informatica. La difesa lamenta che la Corte territoriale aveva ritenuto provata l’imputazione sub C), non sulla base della prova informatica in sé, poiché nessun contenuto rilevante era stato rinvenuto sui suoi dispositivi, ma sulla base di una prova indiziariamente “rappresentativa” della prima, a seguito dell’accesso abusivo del denunciante. Si duole altresì del fatto che i giudici non avevano considerato: a) che nel suo telefono cellulare non era stata rinvenuta la foto inquadrata nel video prodotto dal denunciante né alcuna traccia informatica che potesse ricondurre alla previa esistenza e cancellazione del predetto file, b) che le analisi tecniche eseguite non erano riuscite a risalire al file madre cui quello di collegamento avrebbe dovuto indirizzare e quindi non v’era alcuna prova circa il contenuto e la tipologia del suddetto file e non era stata trovata sui suoi dispositivi alcuna delle foto ritratte nei filmati né vi era certezza che le avesse cancellate volontariamente o che l’intervento del denunciante fosse stato di ripristino e cancellazione invece che di mera cancellazione o di immissione e successiva cancellazione, c) che il link ritrovato nei “punti di ripristino” del computer aveva dati temporali incoerenti, d) che il rinvenimento della traccia, solo parzialmente riconducibile ad una delle sei fotografie, appariva incongruente, in quanto le foto erano contenute nella medesima partizione del disco rigido e quindi sarebbero dovute sparire contestualmente. E – secondo la prospettazione difensiva – la sentenza si era limitata a considerare illogica l’eventuale rimozione incompleta dei dati da parte del denunciante, ma non aveva motivato sulle questioni tecniche emerse dagli accertamenti.
2.9. Con il secondo motivo proposto dallo stesso difensore, si censura la violazione dell’art. 600 ter c.p., comma 1, e art. 600 quater c.p., per omessa motivazione sulle doglianze difensive sul tema della qualificazione giuridica del fatto, lamentando che la sentenza non aveva affrontato il tema del pericolo concreto della divulgazione del materiale.
2.10. Con il motivo nuovo redatto dall’avv. A., si deduce la violazione dell’art. 2 c.p., comma 4, artt. 157 e 600 bis c.p., essendo maturata la prescrizione dei reati di cui ai capi A) e B).
3. Con ordinanza del 30 novembre 2017, la Terza Sezione della Corte di cassazione ha rimesso la trattazione del procedimento alle Sezioni Unite, non condividendo il seguente principio di diritto enunciato dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 13 del 31/05/2000, Bove, Rv. 216337, e seguito in modo costante dalle sezioni semplici: “Poichè il delitto di pornografia minorile di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1 – mediante il quale l’ordinamento appresta una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l’immissione nel circuito perverso della pedofilia – ha natura di reato di pericolo concreto, la condotta di chi impieghi uno o più minori per produrre spettacoli o materiali pornografici è punibile, salvo l’ipotizzabilità di altri reati, quando abbia una consistenza tale da implicare un concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto”. Si sostiene, in particolare, che tale impostazione tradizionale non trova riscontro nel dato normativo e che, anzi, contraddice lo spirito dei numerosi interventi legislativi che si sono avuti successivamente alla menzionata pronuncia e, in particolare, della decisione quadro 2004/68 del Consiglio del 22 dicembre 2003 e della L. n. 38 del 2006 che ha recepito, pressoché integralmente, la normativa sovranazionale in materia. Si afferma, quindi, in consapevole contrasto con l’orientamento prevalente, che ai fini dell’integrazione delle condotte di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, “non è necessario il pericolo, né astratto, né concreto della diffusione del materiale, profilo del quale si occupano specificatamente i commi successivi con autonome fattispecie di reato, punite con pene inferiori, ad eccezione del comma 2, relativo al commercio, per il quale si applica la stessa pena del comma 1” e che la realizzazione dell’esibizione fotografica, la produzione di materiale pornografico e l’induzione alla partecipazione ad esibizioni pornografiche costituiscono di per sé condotte criminose. Ne consegue, ad avviso della sezione rimettente, che “non è sostenibile, laddove non vi sia il pericolo di diffusione, che scatti la previsione dell’art. 600 quater c.p., perché questa norma è applicabile laddove sia esclusa ciascuna delle ipotesi contemplate dall’art. 600 ter c.p.”.
Le Sezioni Unite sono state quindi interpellate in applicazione del comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p., introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, il quale prevede, per le sezioni semplici che non condividano “il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite”, l’obbligo di rimettere a queste ultime la decisione del ricorso.
Quanto alla vicenda concreta, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che, rispetto alle varie questioni proposte nel processo, volte a dimostrare l’illogicità del percorso motivazionale ed il travisamento della prova, è preliminare e rilevante ai fini della decisione quella concernente la qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo C), consistenti nella realizzazione e produzione del materiale pornografico e nell’induzione dei minori a partecipare ad esibizioni pornografiche, in particolare a posare nudi per consentire all’imputato di ritrarre i loro organi genitali. Sul punto le difese assumono, in subordine rispetto alla tesi pienamente assolutoria, che la condotta contestata rientri nella previsione normativa di cui all’art. 600 quater c.p. di detenzione di materiale pornografico – con rilevanti conseguenze sulla prescrizione del reato – mentre i giudici di appello ritengono corretta la qualificazione dei fatti contestati ai sensi dell’art. 600 ter c.p.. Inoltre, il Collegio rimettente afferma che, nel caso sottoposto al suo giudizio, dalla lettura delle sentenze di merito “sembrerebbe escludersi il pericolo della diffusione del materiale pornografico”, posto che la promessa di un contratto con la televisione e la presentazione dei moduli di richiesta di immagini da parte dell’imputato erano solo espedienti per attirare i ragazzi alla relazione omosessuale o al soddisfacimento di esigenze voyeuristiche, in mancanza di altri elementi indiziari.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente:
“Se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, n. 1), con riferimento alla condotta di produzione di materiale pedopornografico, sia necessario, viste le nuove formulazioni della disposizione introdotte a partire dalla L. 6 febbraio 2006, n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale”.
2. La soluzione di tale questione implica la necessità di una preliminare ricostruzione storico-sistematica dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale.
2.1. La nozione di pornografia minorile è stata introdotta dalla L. 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di schiavitù), la quale ha previsto una serie di nuove fattispecie di reato (gli art. 600 bis – prostituzione minorile; art. 600 ter – pornografia minorile; art. 600 quater – detenzione di materiale pedopornografico; art. 600 quinquies – iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile). Le nuove fattispecie sono state inserite nel Titolo XII della parte speciale dedicata ai Delitti contro la persona e, in particolare, nel Capo 3 (Dei delitti contro la libertà individuale), sezione 1 (Dei delitti contro la personalità individuale). L’articolato sistema di fattispecie incriminatrici introdotto dalla L. n. 269 del 1998 era ispirato ai principi sanciti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176 che, nell’art. 34, impegnava gli Stati aderenti a proteggere “il fanciullo” da ogni forma di violenza e sfruttamento sessuale e, quindi, dallo sfruttamento ai fini di prostituzione o di produzione di spettacoli o di materiale pornografico.
Nella formulazione originaria del 1998, l’art. 600 ter c.p., comma 1, così recitava: “Chiunque sfrutta minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da lire cinquanta milioni a lire cinquecento milioni”. E la disposizione si inscriveva in un contesto normativo finalizzato a tutelare “lo sviluppo fisico, psicologico, spirituale morale, sociale” dei minori (L. n. 269 del 1998, art. 1), reprimendo svariati comportamenti considerati idonei ad attentare all’integrità del bene giuridico protetto. Il primo comma dell’articolo, nella versione del 1998, contemplava, dunque, due sotto-fattispecie: a) quella dello sfruttamento di minori al fine di realizzare esibizioni pornografiche; b) quella dello sfruttamento di minori al fine di produrre materiale pornografico. Dunque, secondo il tenore letterale dell’articolo, la realizzazione di esibizioni pornografiche e la produzione di materiale pornografico costituivano il fine, oggetto di dolo specifico, della condotta di “sfruttamento dei minori di anni diciotto”.
2.2. Sulla disposizione, nella sua formulazione originaria, si sono pronunciate, con la richiamata sentenza n. 13 del 2000, le Sezioni Unite di questa Corte alle quali la Terza Sezione penale (con ordinanza del 13 febbraio 1999), aveva posto la seguente questione: “Se il fatto, punito dall’art. 600 ter, comma 1, di sfruttare minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico postuli, o non, lo scopo di lucro e/o l’impiego di una pluralità di minori”. La questione era sorta in conseguenza dell’orientamento dottrinale maggioritario, secondo il quale, al termine “sfruttare” andava riconnesso un significato lucrativo, quantomeno economico, con la conseguenza che dovevano escludersi tutte quelle attività che si risolvevano nell’appagamento di intimi e riservati fini perversi o nell’occasionale utilizzazione di un singolo minore per gli anzidetti scopi. A tale orientamento si contrapponeva un’opinione minoritaria per la quel era preferibile un’interpretazione della disposizione volta ad includere l’incriminazione di condotte illecite che prescindevano dal ritorno economico, sul rilievo che il bene protetto era la tutela dell’essere umano.
Le Sezioni Unite, ricordando che vi erano ragioni letterali, teleologiche e logico-sistematiche per opporsi ad un’interpretazione economicistica della nozione di sfruttamento, hanno affermato che, nonostante il legislatore avesse adoperato il termine “sfrutta”, che evoca immediatamente le nozioni di “utile” e di “rendimento”, la fattispecie della produzione di materiale pornografico non richiedeva lo scopo di lucro da parte del reo. In altri termini, la locuzione “sfruttamento del minore” non doveva intendersi come “sfruttamento per fini economici” dovendosi avere riguardo al bene interesse protetto dalla norma che, come desumibile dalla L. n. 269 della 1998, art. 1, era la “salvaguardia dello sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale” dei minori. Peraltro, si è osservato che, anche dal punto di vista strettamente semantico, lo sfruttamento implica l’attività di trarre da qualcuno un qualsiasi tipo di utilità che, non necessariamente, deve essere economica: “nell’art. 600 ter c.p. il legislatore ha adottato il termine “sfruttare” nel significato di utilizzare a qualsiasi fine (non necessariamente di lucro), sicché sfruttare i minori vuol dire impiegarli come mezzo, anziché rispettarli come fine e come valore in sé: significa insomma offendere la loro personalità, soprattutto nell’aspetto sessuale, che è tanto più fragile e bisognosa di tutela quanto più è ancora in formazione e non ancora strutturata”.
Ritenuto non necessario lo scopo di lucro per integrare il fatto tipico, la sentenza si è poi soffermata sulla struttura del reato, qualificandolo quale fattispecie di pericolo concreto. In altri termini, esso è integrato quando sussiste un pericolo concreto di diffusione del materiale prodotto, tale da introdurlo nel circuito della pedofilia. Secondo la pronuncia, “oltre alla preesistente tutela penale della libertà (di autodeterminazione e maturazione) sessuale del minore, viene introdotta una tutela penale anticipata, volta a reprimere quelle condotte prodromiche che mettono a repentaglio il libero sviluppo personale del minore, mercificando il suo corpo e immettendolo nel circuito perverso della pedofilia”. In tale quadro, non è configurabile il reato quando la produzione pornografica sia destinata a restare nella sfera strettamente privata dell’autore, occorrendo la sussistenza del pericolo concreto di diffusione del materiale pornografico prodotto, il cui accertamento è demandato, di volta in volta, al giudice. Ne consegue che, nell’ipotesi di materiale realizzato per essere conservato dall’autore e non diffuso, trova applicazione non la disposizione dell’art. 600 ter c.p., comma 1, ma quella dell’art. 600 quater, che sanziona la mera detenzione di materiale pedopornografico e che, nella sua formulazione originaria, aveva il seguente tenore: “Chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 600 ter, consapevolmente si procura o dispone di materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto è punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa non inferiore a lire tre milioni”. Nell’ottica della rilevanza del requisito del pericolo di diffusione, le Sezioni Unite hanno precisato che è compito del giudice accertare di volta in volta la configurabilità del predetto pericolo, facendo ricorso ad elementi sintomatici della condotta quali l’esistenza di una struttura organizzativa anche rudimentale atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili, il collegamento dell’agente con soggetti pedofili potenziali destinatari del materiale pornografico, la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari, l’utilizzo contemporaneo o differito nel tempo di più minori per la produzione del materiale pornografico – dovendosi considerare la pluralità di minori impiegati non elemento costitutivo del reato ma indice sintomatico della pericolosità concreta della condotta -, i precedenti penali, la condotta antecedente e le qualità soggettive del reo, quando siano connotati dalla diffusione commerciale di pornografia minorile nonché gli altri indizi significativi suggeriti dall’esperienza. Hanno, di conseguenza, escluso la ricorrenza del concreto pericolo di diffusione del materiale in un’ipotesi in cui l’agente aveva realizzato e detenuto alcune fotografie pornografiche che ritraevano un minorenne, consenziente, per uso puramente “affettivo”, anche se perverso.
2.3. Successivamente, l’Italia ha ratificato, con la L. 11 marzo 2002, n. 46, il Protocollo opzionale alla Convenzione dei diritti del fanciullo, concernente la vendita di bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini, fatto a New York il 6 settembre 2000; protocollo nascente dall’esigenza degli Stati di contrastare, con strumenti sempre più articolati ed omogenei, anche dal punto di vista internazionale, i gravi fenomeni ivi menzionati. Questa legge ha, tra l’altro, impartito disposizioni processuali per la salvaguardia del minore vittima e testimone di tali reati, integrando sul punto la L. n. 66 del 1996.
Di fondamentale importanza per l’evoluzione normativa è stata, però, la Decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio del 22 dicembre 2003 relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile. Con tale atto normativo, l’Unione Europea ritiene lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile gravi violazioni dei diritti dell’uomo e del diritto fondamentale di tutti i bambini ad una crescita, un’educazione ed uno sviluppo armoniosi (par. 4 dei “considerando”), particolarmente pericolosa la pornografia infantile, a causa della diffusione a mezzo Internet (par. 5 dei “considerando”), sicché l’importante opera portata avanti da organizzazioni internazionali deve essere integrata da quella dell’Unione Europea (par. 6 dei “considerando”) ed è necessario affrontare reati gravi quali lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile con un approccio globale comprendente quali parti integranti elementi costitutivi della legislazione penale comuni a tutti gli Stati membri, tra cui sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, e una cooperazione giudiziaria più ampia possibile (par. 7 dei “considerando”). In questo contesto, sono state dettate regole minime a cui gli Stati membri avrebbero dovuto attenersi, alle quali la disciplina italiana del 1998 già sostanzialmente si uniformava.
La L. 6 febbraio 2006, n. 38, art. 2 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet) ha apportato rilevanti modifiche al sistema introdotto dalla L. del 1998. In particolare, con l’art. 2, è intervenuta sull’art. 600 ter, norma centrale dell’intero sistema sanzionatorio, prevedendo una pluralità di fattispecie incriminatrici che, pur se autonome tra loro, sono ordinate secondo un criterio gerarchico rinvenibile sia nella degradante severità delle pene edittali, sia nel sistema delle cause di esclusione disciplinate nel terzo e nel quarto comma. Come emerge dai lavori parlamentari, l’intervento legislativo è espressione dell’esigenza di soddisfare le linee guida in materia di repressione della pedopornografia proprie della decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/68/GAI ed evidenzia la volontà del legislatore di “anticipare ulteriormente la già avanzata soglia di rilevanza penale stabilita dalla L. n. 269 del 1998”, richiamando l’interpretazione della nozione di “sfruttamento” data dalle Sezioni Unite (si veda la relazione di presentazione del disegno di legge della Camera dei deputati n. 4599, prodromico all’adozione della L. n. 38 del 2006). In tale quadro, la nuova condotta tipizzata è quella di “chi realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico, utilizzando minori degli anni diciotto ovvero induce i medesimi a partecipare ad esibizioni pornografiche”. Il verbo “utilizzare” ha quindi preso il posto di “sfruttare” ed è scomparso “il fine di”, prima previsto; tutto ciò comporta, sia che per la consumazione dei delitti occorre l’utilizzazione dei minori per la produzione di esibizioni o di materiale pornografico a prescindere da qualsiasi finalità lucrativa o commerciale, sia che per l’individuazione dell’elemento soggettivo deve farsi riferimento al dolo generico (occorre comunque la consapevolezza che i soggetti utilizzati siano minorenni) e non più al dolo specifico richiesto in passato.
L’art. 600 ter c.p. ha poi subito ulteriori interventi per effetto sia del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, sia del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119. Ma l’intervento più incisivo è stato quello successivamente operato con la L. 1 gennaio 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), la quale ha interamente sostituito il testo originario dell’art. 600 ter e inserito gli attuali commi 6 e 7, quest’ultimo contenente la definizione di “pornografia minorile”. Anche tale legge ha avuto un iter particolarmente lungo e complesso e, come evidenziato nei lavori preparatori, trova la sua ratio giustificatrice, al pari dei precedenti interventi normativi, “nell’esigenza di armonizzare il precedente impianto normativo ai parametri fissati dalla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali (Lanzarote, 25 ottobre 2007) e dalla Direttiva dell’Unione Europea 2011/93 (Ue) contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile”. Essa ha introdotto, con riferimento a quanto qui di interesse, due diverse ipotesi incriminatrici: 1) la realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici o la produzione degli stessi utilizzando i minori; 2) il reclutamento, l’induzione di minori a partecipare ad esibizioni o spettacoli pornografici e a trarre profitto da essi. In relazione alla prima delle due condotte, non sono state apportate novità significative rispetto alla formulazione previgente, se non per l’inserimento del riferimento agli “spettacoli di natura pornografica”, di cui, peraltro, non è stata fornita la definizione; cosicché gli stessi sembrano rappresentare un tutt’uno con le “esibizioni” che, in costanza della previgente disciplina, dovevano intendersi come le rappresentazioni di natura pornografica realizzate in pubblico a cui potevano assistere una o più persone. La convenzione di Lanzarote e la successiva legge nazionale di ratifica hanno inciso, inoltre, sulle sanzioni, sui termini di prescrizione e su alcuni profili procedurali, non rilevanti in questa sede.
All’esito delle modifiche apportate, l’art. 600 ter c.p., comma 1, risulta attualmente così formulato: “E’ punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da Euro 24.000 a Euro 240.000 chiunque: 1) utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; 2) recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae altrimenti profitto”. E la disposizione fornisce, all’ultimo comma, la definizione di pornografia minorile come “ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”.
2.4. La Corte di cassazione, in modo pressoché univoco dopo l’arresto delle Sezioni Unite del 2000, ha continuato, nonostante le modifiche apportate negli anni agli articoli in esame, ad interpretare l’art. 600 ter, comma 1, non prescindendo mai dalla necessità dell’accertamento del pericolo concreto della diffusione del materiale prodotto; e tale elemento ha costituito il discrimine fra la fattispecie di cui sopra e quella residuale, di cui all’art. 600 quater c.p..
2.4.1. Quanto alle situazioni nelle quali si è ravvisato il pericolo concreto della diffusione, queste comprendono i casi in cui: oltre all’imponente apparato informatico e all’ingente materiale pedopornografico rinvenuto nella disponibilità dell’imputato, lo stesso abbia effettuato “con una macchina digitale numerose riprese fotografiche delle parti intime di una bimba, alla quale era stato celato il volto, foto che erano state scaricate nell’hard disk del computer in vista dell’uso diffusivo delle immagini pornografiche” (Sez. 3, n. 5774 del 21/01/2005, M., Rv. 230732); “i dati pedopornografici vengono immessi nella rete, atteso che tale immissione, pur collocandosi in un momento antecedente all’effettiva diffusione tra il pubblico del materiale vietato, è sufficiente ad integrare il reato, con natura di reato di pericolo concreto, stante la possibilità di accesso ai dati ad un numero indeterminato di soggetti” (Sez. 3, n. 25232 del 21/06/2005, P.M. in proc. B., Rv. 231814); parte del materiale, per la cui produzione erano state utilizzate contemporaneamente molte minorenni e per il cui utilizzo l’imputato aveva avuto il consenso di queste, è detenuto in auto ed in alcune occasioni è stato mostrato a terzi (Sez. 3, n. 1814 del 20/11/2007, dep. 2008, M., Rv. 238566); vi sono riprese fotografiche, “mediante telefono cellulare, di minore nudo” (Sez. 3, n. 49604 del 01/12/2009, M., Rv. 245749); il materiale pedopornografico è inserito nel social network Facebook (Sez. 3, n. 16340 del 12/03/2015, M., Rv. 263355); la videoripresa, coinvolgente una minore, è conservata dall’imputato nella memoria del telefono cellulare e successivamente sottoposta in visione a terzi (Sez. 3, n. 35295 del 12/04/2016, R., Rv. 267546); il materiale pedopornografico è inserito in una cartella informatica accessibile da parte di terzi attraverso l’uso di un programma di condivisione (Sez. 3, n. 33298 del 10/05/2016, M., Rv. 270418); le immagini pedopornografiche sono state inviate tramite l’applicazione WhatsApp di un telefono cellulare ai minori divenuti oggetto delle mire sessuali dell’imputato, quale strumento di persuasione e corruzione (Sez. 3, n. 37835 del 29/03/2017, D., Rv. 270906); l’imputato è “abituale intrattenitore di bambine via video”, esperto nell’uso del computer (Sez. 3, n. 16616 del 25/5/2015, T., Rv. 263116); l’imputato dispone di in computer, sul quale ha numerose immagini pedopornografiche, in parte scambiate con terzi (Sez. 3, n. 2681 dell’11/10/2011, n. 2681, dep. 2012, R., Rv. 251885) o inserite in una cartella di condivisione via Internet (ex multis, Sez. 3, 05/02/2009, n. 24788, R.; Sez. 3, n. 8285 del 9/12/2009, R., Rv. 246232).
2.4.2. Tra le poche di segno diverso, vi è l’affermazione, contenuta nella pronuncia Sez. 3, n. 27373 del 31/01/2012, Z. e altri, nella quale sostanzialmente si esclude che la condotta di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, richieda il pericolo di diffusione e, nel richiamare la sentenza n. 13 del 2000, si sostiene che la necessità di verifica del pericolo concreto è stata affermata “esaminando la formulazione del testo previgente (…) che conteneva la dizione “sfruttamento”, disposizione sostituita con la L. 6 febbraio 2006, n. 18″. Tale principio – continua la Corte – “attiene in via più diretta, semmai, alla ben diversa condotta di divulgazione di materiale pedopornografico (da chiunque altri prodotta) tipizzata al comma 3”.
E muove dal dubbio che la verifica in concreto del pericolo di diffusione sia ancora necessaria, pur non negando espressamente la natura di reato di pericolo della fattispecie in esame, la pronuncia Sez. 3, n. 16340 del 12/03/2015, M., Rv. 263355, là dove afferma che “non si può non rilevare che l’intervento dirimente delle S.U. da cui si origina la giurisprudenza di legittimità che allo stato governa l’interpretazione dell’art. 600 ter, comma 1 si colloca ormai in una data che può definirsi risalente, essendosi negli ultimi quindici anni espanso ad un livello all’epoca non percepibile e non prevedibile da chi non fosse particolarmente inserito nel settore, il fenomeno dei così detti social network, ovvero l’intensa potenza comunicativa anche tra privati nella rete, pervenuta ad una sorta di ubiquità in re ipsa di quanto prende le mosse dall’utente di un tale apparato. Laddove, pertanto, le S.U. chiedevano al giudice di merito di accertare di volta in volta la potenzialità concreta di diffusione pure mediante uno strumento telematico, l’odierno notorio insegna che l’inserimento di materiale entro un social network, come Facebook più non necessita, in realtà, alcuno specifico accertamento sulla potenzialità diffusiva. E parimenti anche il riferimento ad organizzazioni “rudimentali” o embrionali risulta ormai superato, ovvero anacronistico, tenuto conto della disponibilità quanto mai agevole che le strutture di comunicazione telematica sociale offrono oggi a chiunque se ne voglia avvalere, senza alcuna necessità di adoperarsi per porre in essere propri personali apparati. La “piazza telematica” è aperta a tutti e la sua idoneità a diffondere quanto tutti vi versano, incluso il materiale pornografico, ha raggiunto un livello notoriamente così elevato da esonerare la necessità di valutazione del concreto pericolo, nel momento in cui il materiale, appunto, è inserito entro un frequentatissimo social network, come è avvenuto nel caso di specie, in cui l’imputato lo ha veicolato su Facebook”.
3. Così ricostruito il quadro legislativo e giurisprudenziale, l’interpretazione proposta dall’orientamento largamente dominante, nel senso della necessità del requisito del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico, deve ritenersi superata dall’evoluzione normativa e, comunque, anacronistica, in quanto riferita a un contesto sociale e a un grado di sviluppo tecnologico – quelli della seconda metà degli anni ‘90 del secolo scorso – che sono radicalmente mutati negli ultimi anni.
3.1. Deve prendersi atto del fatto che la richiamata sentenza del 2000 delle Sezioni Unite rispondeva all’esigenza, del tutto legittima, di evitare di trattare con eccessivo rigore sanzionatorio – essendo molto elevata la pena edittale prevista: reclusione da sei a dodici anni e multa da lire cinquanta milioni a lire cinquecento milioni – la realizzazione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori, avendo superato l’idea che lo sfruttamento punito dalla disposizione dovesse presentare risvolti economici e, dunque, avendo elaborato una nozione di “sfruttamento” sostanzialmente coincidente con quella di “utilizzazione”, poi fatta propria dal legislatore, con la riforma del 2006. Nella ricostruzione interpretativa di allora, per “compensare” l’ampliamento della nozione di sfruttamento, i casi nei quali la produzione del materiale pedopornografico era invece destinata ad una fruizione meramente privata, da parte dello stesso soggetto che aveva realizzato detto materiale, erano ricondotti all’ambito di applicazione dell’art. 600 quater, assai meno rigoroso sul piano sanzionatorio (reclusione fino a tre anni e multa non inferiore a lire tre milioni). E tale conclusione trovava spazio perché non vi era una definizione chiara di pornografia minorile – come quella introdotta nel 2012 all’ultimo comma dell’art. 600 ter – che fosse imperniata sull’esigenza di tutela della dignità sessuale e dell’immagine del minore. Dunque, per attrazione di significato (rispetto alle previsioni dello stesso articolo riferite a “spettacoli” ed “esibizioni”), “produrre” materiale pornografico voleva dire “produrre materiale destinato alla fruizione da parte di terzi”, giacché era insita nel concetto stesso di pornografia (elaborato all’epoca) la visione perversa da parte di una cerchia indeterminata di soggetti. L’introduzione, in via interpretativa, del requisito del pericolo di diffusione si giustificava, allora, perché l’applicazione di un trattamento sanzionatorio così rigoroso richiedeva necessariamente che vi fosse qualcosa di più della semplice captazione dell’immagine pornografica del minore, in un contesto tecnologico nel quale la captazione non implicava necessariamente la successiva diffusione.
Se, però, il requisito del pericolo concreto di diffusione del materiale poteva fungere da guida per l’interprete all’inizio degli anni ‘2000, esso è diventato oggi anacronistico, a causa della pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione, che ha portato alla diffusione di cellulari smartphone, tablet e computer dotati di fotocamera incorporata, e ha reso normali il collegamento a Internet e l’utilizzazione di programmi di condivisione e reti sociali. Mentre un tempo la disponibilità di un collegamento a Internet rappresentava un quid pluris, da verificare caso per caso, rispetto la disponibilità di una fotocamera o videocamera con la quale realizzare immagini o video pornografici, l’attuale situazione è caratterizzata dalla accessibilità generalizzata alle tecnologie della comunicazione, che implicano facilità, velocità e frequenza nella creazione, nello scambio, nella condivisione, nella diffusione di immagini e video ritraenti una qualsiasi scena, anche della vita privata. Ne deriva che il riferimento al presupposto del pericolo concreto di diffusione del materiale realizzato – come elaborato dalle Sezioni Unite del 2000 e dalla giurisprudenza successiva – ha oggi scarso significato, essendo ormai potenzialmente diffusiva qualsiasi produzione di immagini o video.
3.2. Il superamento dell’orientamento largamente maggioritario rappresenta, inoltre, la logica conseguenza dell’evoluzione legislativa sopra delineata. In particolare, deve rilevarsi che il legislatore del 2006 ha sostituito allo “sfruttamento” la “utilizzazione” del minore, sia nell’art. 600 ter sia nell’art. 600 quater c.p., razionalizzando il sistema e confermando, nella sostanza, il punto di arrivo di quella stessa giurisprudenza, secondo cui doveva escludersi che il concetto di sfruttamento fosse caratterizzato da risvolti economici, ma non ha ritenuto di inserire espressamente nel nuovo testo normativo il requisito del pericolo di diffusione. Tale scelta non può essere considerata neutra sul piano interpretativo, perché – come ampiamente visto – l’evoluzione normativa interna è il risultato del progresso della normativa sovranazionale, nel senso di far rientrare nel perimetro dell’incriminazione ogni produzione di materiale pornografico, laddove il sistema ruota ormai intorno ai concetti di “pornografia” e di “utilizzo”. Dunque, mentre il previgente testo era connotato dalla lotta allo “sfruttamento” dei minori per finalità di pornografia, la novella del 2006 ha inteso ampliare la sfera di tutela, non limitandosi alla mera sostituzione del termine “sfrutta” con la parola “utilizza”, ma anche modificando i commi successivi, con l’aggiunta, nel secondo comma, dell’espressione “diffonde”, con la modifica del quarto comma e con l’aggiunta del quinto. Ne è così derivata una norma di più ampio respiro, che appare indirizzata a punire la generalità delle condotte che danno origine a materiale pornografico in cui vengono utilizzati soggetti minorenni e che ha trovato il suo logico completamento con l’introduzione, ad opera, della L. n. 172 del 2012, della definizione di “pornografia minorile”, riferita ad ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali. Proprio l’introduzione di tale definizione chiarisce che oggetto della tutela penale sono l’immagine, la dignità e il corretto sviluppo sessuale del minore; ciò che consente di ricostruire la fattispecie in esame in termini di illecito di danno, perché l’utilizzazione del minore nella realizzazione di materiale pornografico compromette di per sé il bene giuridico consumando l’offesa che il legislatore mira ad evitare.
3.3. L’esclusione del requisito del pericolo di diffusione e della ricostruzione della fattispecie in termini di reato di danno, appare più coerente anche sul piano sistematico, se si considerano i rapporti tra l’art. 600 ter e il successivo art. 600 quater c.p.. Come già osservato, tale ultima disposizione ha l’evidente scopo di “chiudere” il sistema, in modo che siano sanzionate, sostanzialmente, tutte le possibili aggressioni al bene primario del libero e corretto sviluppo psicofisico del minore e, più in particolare, della sua sfera sessuale. In altri termini, esso rappresenta l’ultimo anello di una catena di condotte antigiuridiche, di lesività decrescente, che iniziano con la produzione e proseguono con la commercializzazione, cessione diffusione – punite dall’art. 600 ter – sanzionando il “procurarsi” o “detenere” materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni diciotto. Si tratta di condotte che non integrano due distinti reati (sul punto, Sez. 3, n. 38221 del 25/05/2017, F., Rv. 270994; Sez. 3, n. 43189 del 09/10/2008, T., Rv. 241425), ma rappresentano due diverse modalità di realizzazione del medesimo reato e, quindi, non possono concorrere tra loro se riguardano il medesimo materiale, ricorrendo la continuazione fra reati nel caso in cui il materiale pedopornografico sia stato procurato in momenti diversi e poi detenuto. L’attuale testo dell’articolo è stato introdotto dal legislatore del 2006 che al verbo “disporre” ha sostituito quello più preciso di “detenere”, con la conseguenza che la sua formulazione letterale comporta che non sia configurabile la fattispecie incriminatrice ogni qual volta il soggetto consulti o visioni materiale pornografico in possesso di altri o via Internet, mentre comprende pacificamente le ipotesi di memorizzazione del materiale nell’hard disk del computer, in cd-rom, dvd, o altri supporti. Ma ciò che più rileva, ai fini che qui interessano, è il carattere esplicitamente residuale (“al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 600 ter”) della fattispecie – sottolineato dalle Sezioni Unite nel 2000 e ribadito, tra le altre, da Sez. 3, n. 2211 del 22/10/2014, dep. 2015, A., Rv. 261597; Sez. 3, n. 11997 del 02/02/2011, L., Rv. 249656 – la quale ha come presupposto che l’agente non sia stato precedentemente coinvolto nelle condotte sanzionate dall’art. 600 ter, come emerge dalla clausola di riserva prevista dallo stesso art. 600 quater. Tanto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la fattispecie in questione “richiede la mera consapevolezza della detenzione del materiale pedopornografico, senza che sia necessario il pericolo della sua diffusione ed infatti tale fattispecie ha carattere sussidiario rispetto alla più grave ipotesi delittuosa della produzione di tale materiale a scopo di sfruttamento” (Sez. 3, n. 20303 del 07/06/2006, P., Rv. 234699). Da tale ricostruzione derivava – come visto – l’orientamento tradizionale, secondo cui la realizzazione di materiale pedopornografico utilizzando minori di anni diciotto, in mancanza di un pericolo concreto di diffusione, era equiparata alla condotta di chi si procurava o deteneva materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni diciotto.
Come anticipato, l’opposta soluzione, nel senso dell’irrilevanza del pericolo di diffusione ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 600 ter c.p., risulta maggiormente coerente con il dato letterale, quale emerge dall’ultima formulazione di tale disposizione e del successivo art. 600 quater. Entrambe si riferiscono, infatti, al materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni diciotto, ma la prima delle due incrimina la produzione di detto materiale equiparandola alla realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici (primo comma, n. 1), mentre la seconda incrimina il procurarsi o detenere il materiale in questione. E la presenza di un evidente nucleo comune, rappresentato dall’utilizzazione di minori per la realizzazione di materiale pornografico, deve indurre l’interprete a svalutare il profilo della “produzione” del materiale. Dunque, alla luce dell’evoluzione del quadro normativo sopra delineata, il termine “produzione” – interpretato dalle Sezioni Unite nel 2000 come “produzione di materiale destinato ad essere diffuso nel mercato della pedofilia” – non ha più una sua autonomia di significato rispetto al termine “realizzazione”, utilizzato nello stesso n. 1) dell’art. 600 ter, comma 1, con riferimento alle esibizioni o spettacoli; con la conseguenza che la “produzione” altro non è che la “realizzazione di materiale pornografico”. Si verifica, così, un ampliamento dello spazio di operatività della clausola di salvaguardia fissata dall’art. 600 quater perché tale disposizione e il precedente art. 600 ter hanno ad oggetto lo stesso materiale pornografico; con la conseguenza che il produttore di tale materiale risponderà della più grave fattispecie dell’art. 600 ter, mentre la meno grave fattispecie dell’art. 600 quater troverà spazio solo per i soggetti diversi dal produttore.
3.4. Un ulteriore argomento a favore dell’interpretazione qui delineata è rappresentato dall’introduzione, ad opera della L. n. 38 del 2006, art. 4, dell’art. 600 quater.1 (Pornografia virtuale), che accomuna le ipotesi sanzionatorie di cui ai due precedenti articoli, prevedendo che ciascuna di esse si applica – con pena diminuita di n terzo – anche quando il materiale pornografico rappresenta immagini virtuali realizzate utilizzando immagini di minori degli anni diciotto o parti di esse, e precisa che per immagini virtuali si intendono quelle realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali. Si tratta, evidentemente, di una disposizione che muove dal presupposto dell’assoluta identità dell’oggetto materiale delle due fattispecie sanzionatorie alle quali si riferisce – il materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni diciotto – perché con la sua formulazione, in cui si fa riferimento alla “realizzazione” ma non alla “produzione”, conferma la mancanza di autonomia concettuale della “produzione” rispetto alla realizzazione, con conseguente irrilevanza del presupposto del pericolo di diffusione, in quanto tradizionalmente riferito alla sola “produzione”.
4. Devono essere ora valutate le conseguenze del superamento dell’orientamento giurisprudenziale dominante.
4.1. Sotto un primo profilo, viene in rilievo il rischio – già ampiamente evidenziato – di un’applicazione eccessivamente espansiva della norma penale, ben al di là di ipotesi che rispecchino la gravità sociale e lo spessore criminale del fenomeno della pedopornografia. Ci si deve porre, infatti, il problema della rilevanza penale della cd. “pornografia domestica”, ossia della condotta di chi realizza materiale pornografico in cui sono coinvolti minori che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale nei casi in cui tale materiale è prodotto e posseduto con il consenso di tali minori e unicamente a uso privato delle persone coinvolte.
4.1.1. In relazione a tali fatti deve essere indubbiamente valorizzato, al fine di evitare “ipercriminalizzazioni” non coerenti con le finalità proprie del diritto penale, il dato dell’appartenenza di tali condotte all’ambito “dell’autonomia privata sessuale”. Tengono espressamente conto di tale esigenza le fonti sovranazionali sopra richiamate. In particolare, l’art. 3, comma 2, della Decisione Quadro del Consiglio n. 2004/68/GAI del 22 dicembre 2003, il quale così dispone: “2. Uno Stato membro può prevedere che esulino dalla responsabilità penale le condotte connesse con la pornografia infantile: (…) b) di cui all’art. 1, lett. b), punti 1) e 2), in cui, trattandosi di produzione e possesso, immagini di bambini che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale siano prodotte e detenute con il loro consenso e unicamente a loro uso privato. Anche nei casi in cui sia stata stabilita l’esistenza del consenso, questo non può essere considerato valido se, ad esempio, l’autore del reato l’ha ottenuto avvalendosi della sua superiorità in termini di età, maturità, stato sociale, posizione, esperienza, ovvero abusando dello stato di dipendenza della vittima dall’autore”. Analoghe previsioni sono contenute nell’art. 20, comma 3, della Convenzione di Lanzarote, al legislatore statale la facoltà di escludere la rilevanza penale della produzione e del possesso di materiale pornografico in cui sono coinvolti minori che hanno raggiunto l’età del consenso sessuale, “quando tali immagini sono prodotte o detenute da questi ultimi con il loro consenso e unicamente a loro uso privato”. Sulla stessa linea si colloca la Direttiva dell’Unione Europea 2011/93 (Ue) contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, che ha sostituito la precedente Decisione Quadro del Consiglio n. 2004/68/GAI ed è stata attuata nell’ordinamento interno con il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 39, la quale attribuisce alla discrezionalità degli Stati membri decidere se attribuire o no rilevanza penale alla “produzione, all’acquisto o al possesso di materiale pedopornografico in cui sono coinvolti minori che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale nei casi in cui tale materiale è prodotto e posseduto con il consenso di tali minori e unicamente a uso privato delle persone coinvolte, purché l’atto non implichi alcun abuso”.
4.1.2. La ricostruzione dogmatica operata dall’orientamento giurisprudenziale tradizionale, che qui si intende superare, forniva una soluzione del tutto parziale del problema, escludendo di fatto che la pornografia domestica potesse rientrare nel concetto di “produzione” di cui all’art. 600 ter, per la mancanza del pericolo di diffusione, ma riconducendola, pur sempre, all’ambito del penalmente rilevante, attraverso il richiamo all’applicabilità della fattispecie residuale del successivo art. 600 quater. Per contro, il nuovo inquadramento sistematico della fattispecie, sopra delineato, induce a valorizzare, allo scopo di evitare l’incriminazione di un comportamento evidentemente privo di rilevanza penale, il concetto cardine di “utilizzazione del minore”, enfatizzandone la portata dispregiativa, nel senso che esso implica una “strumentalizzazione” del minore stesso. Deve dunque intendersi per “utilizzazione” la trasformazione del minore, da soggetto dotato di libertà e dignità sessuali, in strumento per il soddisfacimento di desideri sessuali di altri o per il conseguimento di utilità di vario genere; condotta che rende invalido anche un suo eventuale consenso (ex plurimis, Sez. 3, n. 1783 del 17/11/2016, dep. 16/01/2017, C., Rv. 269412; Sez. 3, n. 1181 del 23/11/2011, dep. 16/01/2012, L., Rv. 251905). Si devono, insomma, distinguere le condotte di produzione aventi un carattere abusivo, per la posizione di supremazia rivestita dal soggetto agente nei confronti del minore o per modalità con le quali il materiale pornografico viene prodotto (ad esempio, minaccia, violenza, inganno) o per il fine commerciale che sottende la produzione, o per l’età dei minori coinvolti, qualora questa sia inferiore a quella del consenso sessuale. In altri termini, qualora le immagini o i video abbiano per oggetto la vita privata sessuale nell’ambito di un rapporto che, valutate le circostanze del caso, non sia caratterizzato da condizionamenti derivanti dalla posizione dell’autore, ma siano frutto di una libera scelta – come avviene, per esempio, nell’ambito di una relazione paritaria tra minorenni ultraquattordicenni – e siano destinate ad un uso strettamente privato, dovrà essere esclusa la ricorrenza di quella “utilizzazione” che costituisce il presupposto dei reati sopra richiamati.
Dunque, il discrimine fra il penalmente rilevante e il penalmente irrilevante in questo campo non è il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità dell’utilizzazione, che può essere esclusa solo attraverso un’approfondita valutazione della sussistenza in concreto dei presupposti sopra delineati; e deve a tal fine ricordarsi che, in ogni caso, il carattere pornografico o meno di immagini ritraenti un minore, costituisce apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito e, pertanto, sottratto al sindacato di legittimità se sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici (Sez. 3, Sentenza n. 38651 del 09/06/2017, R., Rv. 270827).
4.1.3. Non osta a tale conclusione la circostanza che il legislatore interno, nell’attuazione delle richiamate discipline sovranazionali in materia, non abbia ritenuto di fissare espresse esclusioni rispetto alla generalizzata rilevanza penale della pornografia minorile, pur consentite da tali discipline. Deve infatti ribadirsi che è lo stesso concetto di “utilizzazione”, cui fanno riferimento sia l’art. 600 ter sia l’art. 600 quater c.p., che circoscrive l’area del penalmente rilevante, perché presuppone la ricorrenza di un differenziale di potere tra il soggetto che realizza le immagini e il minore rappresentato, tale da generare una strumentalizzazione della sfera sessuale di quest’ultimo. E anzi, tale ricostruzione interpretativa trova conferma nella struttura del sistema che il legislatore ha inteso creare, nell’ambito del quale, al severissimo trattamento sanzionatorio previsto per la produzione di materiale pedopornografico, si somma un cospicuo apparato di circostanze aggravanti – originariamente contenuto nell’art. 600 sexies, abrogato dalla L. n. 172 del 2012, art. 4, comma 1, lett. i), e oggi nell’art. 602 ter – tra le quali assume particolare significatività, per quanto qui rileva, quella prevista dal quinto comma di tale articolo, in forza della quale la pena è aumentata dalla metà ai due terzi se il fatto è commesso in danno di un minore degli anni sedici. Si tratta, infatti, di sanzioni che, per la loro entità, sarebbero ingiustificabili, alla stregua del principio costituzionale di ragionevolezza, qualora si volessero ritenere applicabili al fenomeno della “pornografia minorile domestica”.
4.2. Un’altra possibile conseguenza del superamento dell’orientamento espresso dalla sentenza n. 13 del 2000 e dalla successiva giurisprudenza di legittimità è quella individuata nell’ordinanza della Terza Sezione penale.
In essa si richiama, quale elemento a sostegno della rimessione alle Sezioni Unite, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani che ha censurato l’overruling interpretativo in malam partem per violazione dell’art. 7 CEDU (si richiamano, tra le più recenti Corte EDU, Sez. 3, 17 ottobre 2017, Navalnyye c. Russia, e Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna). Si precisa, inoltre, che non constano precedenti nazionali sulle ricadute della giurisprudenza di Strasburgo nel nostro sistema in subiecta materia, mentre nel caso dell’overruling in bonam partem, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18288 del 21/01/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651, hanno affermato che il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata: la Corte ha precisato, in particolare, che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 7 che include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale. La Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 230 del 2012, in un caso in cui il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la possibilità della revoca del giudicato a seguito di mutamento della giurisprudenza, ha ritenuto non manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzasse, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, e delle Sezioni Unite in particolare postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformasse “tendenzialmente” alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, omettesse di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non erano previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi. Secondo la Corte costituzionale, in altri termini, nel nostro ordinamento, nonostante l’orientamento della Corte di Strasburgo, il cosiddetto diritto vivente non può avere la stessa funzione della legge, sicché non è idoneo a mettere in discussione il giudicato, soggiungendosi, peraltro, che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18288 del 2010 e la sentenza Sez. 2, n. 19716 del 06/05/2010, Merlo, Rv. 247113, non avevano mancato di porre adeguatamente in risalto il netto iato che separava gli istituti esaminati, riconducibili più correttamente all’ambito delle preclusioni, rispetto al giudicato vero e proprio.
Fatta questa premessa, deve rilevarsi che, in riferimento alla questione qui in esame, il problema dell’overruling in malam partem non viene comunque in rilievo, essendo ormai generalizzato – come visto – il pericolo di diffusione del materiale realizzato utilizzando minorenni; con la conseguenza che l’esclusione di tale pericolo quale presupposto per la sussistenza del reato non determina in concreto un ampliamento dell’ambito di applicazione della fattispecie penale, essendo completamente mutato il quadro sociale e tecnologico di riferimento ed essendo parallelamente mutato anche il quadro normativo sovranazionale e nazionale. Risulta significativo, a tal fine, che già la sentenza delle Sezioni Unite del 2000 individuasse una serie di elementi sintomatici liberamente apprezzabili dal giudice, anche disgiuntamente, ai fini della verifica della sussistenza del pericolo di diffusione tra i quali “la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari”. E una tale disponibilità, che all’epoca di quella pronuncia era tutt’altro che scontata e doveva essere oggetto di specifico accertamento, è oggi assolutamente generalizzata, essendo la riproducibilità e trasmissibilità di immagini e video immediata conseguenza della loro produzione. A ciò deve aggiungersi che, pur con il superamento del presupposto del pericolo di diffusione ritenuto necessario dalla giurisprudenza tradizionale, la disposizione dell’art. 600 ter c.p. risulta comunque circoscritta nel suo ambito di applicazione dall’interpretazione restrittiva del concetto di “utilizzazione”, tale da escludere la c.d. “pornografia domestica”.
5. Si deve dunque affermare il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, n. 1), con riferimento alla condotta di produzione di materiale pedopornografico, non è più necessario, viste le nuove formulazioni della disposizione introdotte a partire dalla L. 6 febbraio 2006, n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale”.
6. Venendo al caso di specie, deve rilevarsi che il ricorso è inammissibile.
6.1. Quanto alle censure (sub 2.1.a, 2.3, 2.9 del “Ritenuto in fatto”), riferite all’omessa motivazione della sentenza impugnata sui motivi nuovi in appello, in ordine alla mancanza del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico presuntivamente prodotto, non solo deve richiamarsi il principio di diritto appena affermato, ma deve ulteriormente rilevarsi che, nel caso di specie, la sussistenza di un tale pericolo emerge in modo inequivocabile dall’analitica motivazione della sentenza impugnata; ciò che rende irrilevante la mancanza di un’espressa statuizione della Corte d’appello sulla relativa doglianza. Non risulta, infatti, condivisibile l’affermazione della sezione rimettente secondo cui la promessa di un contratto con la televisione e la presentazione di falsi moduli di richiesta di immagini da parte dell’imputato erano solo espedienti per attirare i ragazzi alla relazione omosessuale o al soddisfacimento di esigenze voyeuristiche, in mancanza di altri elementi indiziari. Deve in particolare osservarsi che, dalla descrizione dei fatti, quale emerge dalla sentenza di secondo grado, il pericolo di diffusione del materiale appare evidente, per l’esistenza di almeno quattro indici sintomatici, tra quelli individuati dall’orientamento interpretativo tradizionale, a partire dalla sentenza n. 13 del 2000: 1) la pluralità delle vittime; 2) la disponibilità di apparecchiature elettroniche concretamente idonee alla diffusione, avendo la stessa difesa, in sede di appello, sostenuto che il computer dell’imputato era sprovvisto di password e soggetto a potenziali accessi di terzi; 3) la presenza sul computer dell’imputato anche di immagini a contenuto pornografico gay, evidentemente scaricate da Internet, indice di un suo collegamento in rete; 4) la negativa personalità dell’imputato, quale emerge dalla predisposizione di materiale falso relativo ad eventuali audizioni cui i minori avrebbero voluto partecipare.
Ne deriva la manifesta infondatezza della doglianza formulata, essendo comunque configurabile in concreto il reato contestato, sia facendo applicazione dell’orientamento giurisprudenziale – da intendersi superato – che richiede il pericolo di diffusione quale presupposto dello stesso, sia facendo applicazione del principio di diritto enunciato con la presente sentenza; con l’ulteriore conseguenza – già anticipata sub 4.2. – della non configurabilità in concreto di un overruling in malam partem.
6.2. Parimenti inammissibili sono i successivi rilievi difensivi (riportati sub 2.1.b nel “Ritenuto in fatto”), riferiti a pretesi vizi della motivazione su singoli elementi valorizzati ai fini dell’accertamento della responsabilità penale. Con essi la difesa opera, infatti, un arbitrario tentativo di parcellizzare il quadro istruttorio, che appare inidoneo ad intaccare la tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata. Infatti, quest’ultima si pone in totale continuità con quella di primo grado nel valorizzare: le convergenti dichiarazioni accusatorie delle persone offese e i riscontri rappresentati dalle dichiarazioni di altri soggetti; il materiale rinvenuto nella disponibilità dell’imputato e, in particolare, i file prelevati dal suo computer, la cui corrispondenza al materiale pedopornografico effettivamente prodotto dallo stesso imputato è dimostrata sulla base delle testimonianze delle persone ivi rappresentate, oltre che dell’accertamento tecnico effettuato (pagg. 81 e ss. della sentenza); i documenti falsi prodotti dallo stesso imputato allo scopo di ingannare le vittime (pagg. 80-81).
Del tutto irrilevanti risultano, a fronte di un quadro istruttorio correttamente ritenuto chiaro e univoco dai giudici di merito, le doglianze difensive relative all’omesso sequestro dei telefoni delle persone offese e del denunciante, all’omessa verifica dei tabulati telefonici, nonché alla pretesa mancata corrispondenza fra il contenuto di uno dei CD e le sommarie informazioni rese dal denunciante e al pericolo di contaminazione dei reperti.
6.3. Analoghe considerazioni valgono anche in relazione alle censure riportate sub 2.1.c) nel “Ritenuto in fatto”, relative alla valutazione delle dichiarazioni accusatorie delle persone offese, che rappresentano, per lo più, la generica riproposizione di rilievi critici già esaminati e motivatamente disattesi dai giudici di primo e secondo grado.
È sufficiente qui richiamare le corrette considerazioni svolte dalla Corte d’appello in ordine alla sostanziale genuinità delle convergenti versioni accusatorie fornite dalle vittime, caratterizzate da minimali e marginali incongruenze, e ampiamente riscontrate nei file ritrovati dal teste L.M., nei quali – come già evidenziato – i soggetti rappresentati si sono riconosciuti. Essi sono stati, inoltre, ritenuti pienamente capaci a testimoniare, sulla base delle articolate e motivate valutazioni operate dai consulenti tecnici; valutazioni rispetto alle quali la consulente della difesa ha formulato deduzioni critiche palesemente errate, anche perché in larga parte riferite al diverso profilo dell’attendibilità delle deposizioni, il cui accertamento è riservato al giudice. La sentenza ripercorre nel dettaglio (pagg. 51-69) la descrizione degli episodi delittuosi riferita dalle persone offese, evidenziando con chiarezza i profili sui quali le stesse si riscontrano reciprocamente, in particolare quanto all’insidiosità e alla pervicacia dimostrate dall’imputato nell’avvicinare sessualmente i diversi soggetti coinvolti. A ciò devono aggiungersi i numerosi ulteriori riscontri, la cui complessiva valenza nell’economia motivazione del provvedimento impugnato non è stata adeguatamente contestata, neanche in via di mera prospettazione, con il ricorso per cassazione.
6.4. Inammissibili, per le stesse ragioni, sono le doglianze riferite a pretesi vizi della motivazione in ordine alla testimonianza e all’apporto offerto dal denunciante L.M., che sarebbe stato ritenuto attendibile, nonostante avesse girato il filmino volto a precostituire la prova del reato con una condotta da considerarsi ai limiti dell’illecito (sub 2.1.d nel “Ritenuto in fatto”), così giungendo a formare una prova inutilizzabile (sub 2.4).
Si tratta, ancora una volta, di rilievi, del tutto parziali e generici, che hanno per oggetto valutazioni di fatto sottratte al sindacato di questa Corte. Ma, anche a prescindere da tale assorbente considerazione, deve osservarsi che la Corte d’appello ha fornito un’adeguata motivazione sia circa la plausibilità del modo di operare di L.M., sia circa i numerosi riscontri esterni della genuinità del materiale da lui reperito (pagg. 93-101), consistente – come visto – nei file e nei moduli stampati falsi predisposti dall’imputato e da questo utilizzati per millantare conoscenze nell’ambito del mondo dello spettacolo allo scopo di attirare i minorenni dei quali intendeva approfittare. Né sussistono profili di inutilizzabilità delle prove reperite da L.M., essendo la prospettazione difensiva sul punto basata su generiche asserzioni circa l’illecita intromissione dello stesso nella sfera privata dell’imputato.
6.5. Quanto al motivo (sub 2.1.e del “Ritenuto in fatto”) con cui si deducono vizi della motivazione sull’analisi della perizia relativa al computer dell’imputato e della consulenza di parte, è sufficiente richiamare le considerazioni già svolte circa la riscontrata convergenza fra il contenuto dei file realizzati dall’imputato e il riconoscimento degli stessi operato dai soggetti coinvolti. La difesa ripropone sul punto, in base a mere indimostrate asserzioni, la tesi del complotto ai danni dell’imputato, richiamando quegli stessi elementi che erano già stati ritenuti poco pregnanti dai giudici di merito, con conforme valutazione, quali la conoscenza tra le persone offese e il preteso conflitto esistente fra il denunciante e l’imputato. Si tratta di rilievi la cui genericità e ripetitività rende superfluo ogni riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, pur ampia e analitica anche su tali profili (pagg. 102-108).
6.5. Le considerazioni già svolte inducono a ritenere inammissibile anche il motivo di ricorso (sub 2.2 del “Ritenuto in fatto”) riferito alla mancata rinnovazione dell’audizione del denunciante, la cui esigenza sarebbe sorta all’esito della perizia informatica. È sufficiente qui richiamare le conformi valutazioni dei giudici di primo e secondo grado circa la valenza decisiva del riconoscimento e degli ulteriori riscontri sulla genuinità, che rende superfluo ogni ulteriore accertamento sull’operato del teste L.M. nell’attività di indagine da lui svolta e sull’effettiva provenienza dei file dal computer dell’imputato, posto che gli stessi erano stati certamente da lui realizzati.
6.6. Il motivo sub 2.5. – con cui si assume la violazione dell’art. 191 c.p.p., art. 197 c.p.p., lett. d), art. 222 c.p.p., lett. d), art. 225 c.p.p., comma 3, art. 233 c.p.p., comma 3, con riferimento all’assunzione della qualità di testimoni dei consulenti del pubblico ministero ed all’inutilizzabilità dei risultati della deposizione dibattimentale nonché della relativa consulenza depositata – è manifestamente infondato.
Del tutto correttamente la Corte d’appello richiama, sul punto, il principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui non sussiste l’incompatibilità con l’ufficio di testimone per il consulente tecnico incaricato dal pubblico ministero, non rivestendo costui la qualità di ausiliario dell’organo inquirente, in quanto è tale solo l’ausiliario in senso tecnico che appartiene al personale della segreteria o della cancelleria dell’ufficio giudiziario e non invece un soggetto estraneo all’amministrazione giudiziaria che si trovi a svolgere, di fatto ed occasionalmente, determinate funzioni previste dalla legge (ex multis, Sez. 5, n. 32045 del 10/06/2014, Colombo, Rv. 261652). Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, tale principio si attaglia pienamente alla fattispecie in esame, nella quale i consulenti, poi chiamati a valutare la capacità a testimoniare, non hanno svolto in senso tecnico la funzione di ausiliari nella fase delle indagini preliminari, essendosi limitati ad una occasionale collaborazione all’assunzione delle sommarie informazioni rese dai minori.
6.7. Anche il motivo di doglianza, riferito alla prescrizione delle condotte contestate come commesse ai danni di B.M.M. e P.A., è manifestamente infondato.
Prendendo in considerazione la più risalente di tali condotte, quella commessa nei confronti di B. e collocata dalla difesa al 4 ottobre 2008 (pag. 56 dell’atto di appello), in relazione alla quale trova applicazione, ai sensi dell’art. 157 c.p. e art. 161 c.p., comma 2, il termine prescrizionale complessivo di sette anni e sei mesi, devono essere computati periodi di sospensione per un totale di 11 mesi e 11 giorni, di cui: 90 giorni, in corrispondenza della sospensione della custodia cautelare per deposito della sentenza di primo grado; 8 mesi e 11 giorni, per la particolare complessità del procedimento ex art. 304 c.p.p., comma 2, (pag. 40 della sentenza impugnata). Sotto tale ultimo profilo, deve del resto ricordarsi che la sospensione dei termini di custodia cautelare per la particolare complessità del giudizio, deliberata con specifica ordinanza, determina, ai sensi dell’art. 159 c.p., comma 1, la sospensione della prescrizione dei reati per i quali in quel giudizio si procede e per tutti gli imputati, prescindendo dallo stato cautelare dei singoli e dal titolo dei reati, stante la natura obiettiva della causa di sospensione e l’impossibilità di operare distinzioni tra le diverse posizioni dell’unico processo, da intendersi globalmente complesso (Sez. 6, n. 15477 del 28/02/2014, Ambrosino, Rv. 258967). Dunque, il termine prescrizionale per il fatto più risalente è decorso il 15 marzo 2017, ovvero in data posteriore a quella della sentenza impugnata, mentre i termini prescrizionali per i restanti reati sono decorsi in date ancora successive; con la conseguenza che deve essere ritenuto manifestamente infondato anche il motivo aggiunto riportato sub 2.10, riferito alla prescrizione anche di tali reati. Infatti, l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude in ogni caso la possibilità di rilevare l’estinzione del reato per prescrizione verificatasi dopo la pronuncia della sentenza d’appello (ex plurimis, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164).
6.8. Inammissibile è anche il motivo sub 2.7., con cui si lamenta, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La difesa si limita, infatti, alla mera reiterazione di una doglianza di merito già disattesa dalla Corte d’appello, la quale ha correttamente valorizzato, in senso ostativo, la rilevante gravità del fatto e l’intensità del dolo, quali emergono dal carattere insidioso e subdolo delle condotte, poste in essere ai danni di una pluralità di vittime; e ciò, a fronte di elementi positivi di giudizio la cui esistenza è meramente asserita dalla difesa.
6.9 Il motivo sub 2.8. – con cui si lamenta che la Corte territoriale aveva ritenuto provata l’imputazione sub C), non sulla base della prova informatica in sé, siccome nessun contenuto rilevante era stato rinvenuto sui suoi dispositivi, ma sulla base di una prova indiziariamente “rappresentativa” della prima, creata dal denunciante – è manifestamente infondato.
Come già ampiamente evidenziato, la Corte distrettuale ha analiticamente ricostruito l’iter della raccolta della prova da parte del denunciante, evidenziando la plausibilità del suo svolgimento, nonché la genuinità dei risultati ottenuti, che hanno trovato ampio riscontro, essendo stata confermata, nella sostanza, la provenienza dei file dall’imputato ed essendo stata esclusa l’ipotesi di un loro confezionamento ad arte nell’ambito di un complotto ordito ai danni di quest’ultimo. Si tratta, evidentemente, di una prova indiziaria diversa dalla prova informatica in senso stretto, la cui ammissibilità non è preclusa dall’ordinamento processuale.
7. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 31 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2018