Emergenza Covid-19 e responsabilità penale nelle strutture sanitarie e assistenziali.
Emergenza Covid-19 e responsabilità penale nelle strutture sanitarie e assistenziali.
Premessa
L’emergenza Covid-19, definita dalla stessa OMS “pandemia”, oltre che a imporre alle Autorità Italiane di adottare provvedimenti straordinari volti alla prevenzione ed al contenimento del virus tra la popolazione, ha messo a dura prova il sistema sanitario nazionale.
Nonostante l’aumento dei posti letto nei vari reparti di strutture pubbliche e private, la predisposizione dei dispositivi di sicurezza sia per i pazienti che per il personale e le linee guida fornite dall’Istituto Superiore di Sanità, numerose sono le criticità legate alla gestione dell’epidemia.
In tal quadro, un’attenzione critica è stata rivolta non solo alle istituzioni per la risposta messa in campo all’insorgere della situazione emergenziale, ma anche l’operare dei sanitari, in particolare di coloro che svolgono ruoli dirigenziali, è stato (e plausibilmente sarà) oggetto di approfondimenti.
Ed in effetti è realistico immaginare che, a fronte degli innumerevoli contagi verificatisi all’interno delle strutture sanitarie e delle case di riposo, possano insorgere disamine volte ad accertare eventuali responsabilità penali dei sanitari per gli eventi avversi che hanno avuto luogo nell’ambito dell’emergenza epidemiologica.
Sotto tale profilo, a parere di chi scrive, è quanto mai necessario approcciare al tema della responsabilità penale degli operatori sanitari con grande cautela onde evitare che gli stessi non si trovino costretti ad assumere atteggiamenti improntati alla cd. medicina difensiva. Ciò vale a maggior ragione in casi connotati da estrema eccezionalità, come quello in esame, tenuto conto che gli operatori sanitari (ospedalieri e non) hanno dovuto fronteggiare un virus sconosciuto, con alto tasso di pericolosità e di diffusività, disponendo di indicazioni che anche la comunità scientifica rinnovava e modificava di continuo.
Pur tuttavia, verranno certamente aperte inchieste giudiziarie – principalmente a carico di ignoti – a causa degli esposti di privati cittadini, familiari di deceduti e associazioni volte a verificare se vi siano indici di responsabilità in capo al personale sanitario per omicidio colposo, lesioni colpose, epidemia colposa nonché responsabilità delle persone giuridiche per la mancata chiusura di reparti e la mancata adozione dei presidi di sicurezza individuali.
La responsabilità penale del sanitario
In particolare: l’omicidio colposo e le lesioni colpose
Premesso che non paiono potersi ipotizzare ipotesi dolose a carico dei sanitari – se non nel caso di decisioni adottate in netto contrasto con le linee guida fornite dall’Istituto Superiore di Sanità – parimenti risulta difficile configurare in capo agli stessi un addebito di tipo colposo, avuto riguardo tanto all’elemento soggettivo quanto al nesso eziologico tra condotta ed evento.
Anzitutto, l’esistenza di una situazione emergenziale improvvisa implica che non si possa pretendere dal medico il rispetto di quelle cautele che sarebbero ordinariamente esigibili.
Se, infatti, per l’esistenza dell’elemento soggettivo della colpa occorre che l’evento fosse prevedibile ed evitabile, bisognerebbe allo stesso tempo provare che al sanitario fossero state fornite tutte le indicazioni relative al virus in questione e che egli stesso fosse in grado di attuarle.
Ma in una situazione di urgenza, del tutto nuova anche per la comunità scientifica, e considerate le diverse manifestazioni che il Covid-19 può assumere, non pare potersi ravvisare in capo all’operatore sanitario la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa ancor più se si considera che si dovrebbe essere in grado di individuare quale regola cautelare sia stata violata e se, adottando un comportamento conforme alla regola cautelare disattesa, si sarebbe potuto evitare l’evento.
Complessa sembra altresì la prova della sussistenza del nesso causale tra la condotta doverosa ed il contagio.
La giurisprudenza ha chiarito, tramite la sentenza “Franzese” (Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328), che “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
Più segnatamente, quanto al grado probabilistico, la sentenza “Franzese” ha affermato:
“Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria dell’esistenza del nesso di causalità poiché il giudice deve verificarne la validità sul caso concreto in base alle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile così che, all’esito del ragionamento probatorio, possa concludersi che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.
L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.”
Alla luce della giurisprudenza citata, pertanto, risulta evidente che solo ove si conoscano tutti gli aspetti sia fattuali che scientifici della malattia si potrebbe individuare la condotta omissiva del sanitario e valutare possibili profili di responsabilità.
E se da un lato la prova del nesso di causalità potrebbe essere più semplice quanto ai pazienti che manifestavano i sintomi tipici del Covid-19 dopo essere stati ricoverati in ospedale per altra patologia, dall’altro lato, la prova della sussistenza del nesso causale è certamente più ardua nel caso in cui il virus sia stato contratto dal personale sanitario non potendosi presumere che, per il sol fatto di lavorare all’interno di un ambiente “a rischio”, l’operatore sia venuto a contatto con l’agente patogeno.
Va aggiunto, infine, che, con specifico riferimento al reato di lesioni, si pone un ulteriore problema connesso al concetto di “malattia”.
Per la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 590 c.p., infatti, è necessario un processo patologico accompagnato “da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo”, di talché potranno eventualmente rilevare soltanto i casi di quei soggetti che abbiano effettivamente riportato delle conseguenze incidenti sul proprio organismo a causa della contrazione del Coronavirus rimanendo esclusi coloro che, pur positivi, non presentano alcun sintomo né ripercussione connessi alla malattia.
In particolare: l’epidemia colposa
Quanto alla responsabilità per il reato di epidemia colposa di cui all’art. 452 c.p. valgano le considerazioni appena svolte in ordine ai reati di omicidio e di lesioni colpose rispetto alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
Tuttavia, occorre precisare che – come si è accennato – le condotte astrattamente ascrivibili al sanitario nell’ambito dell’epidemia da Covid-19 sembrerebbero di natura omissiva ciò che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, escluderebbe la possibilità di contestare la fattispecie di cui all’art. 452 c.p., trattandosi in questo caso di reato commissivo a forma vincolata in quanto la realizzazione della condotta avviene mediante una precisa modalità (causazione attraverso la diffusione di germi patogeni).
Anche dimostrare la sussistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva della struttura sanitaria/assistenziale o del singolo operatore ed il contagio dei pazienti o del personale risulta di dubbia fattibilità considerando la rapida evoluzione del virus e la scarsità delle informazioni a riguardo fornite da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità soprattutto nella fase iniziale dell’epidemia.
La responsabilità del datore di lavoro e il T.U. sicurezza
Va evidenziato che eventuali profili di omissione nella gestione della situazione di emergenza potrebbero essere configurabili anche in capo a coloro che svolgono il ruolo di dirigenti e che, come tali, sono tenuti ad effettuare determinate scelte di organizzazione e prevenzione in virtù della posizione di garanzia rivestita (si pensi, a titolo esemplificativo, al direttore sanitario di una struttura ospedaliera o di una RSA).
In tale contesto, è chiaro che – laddove siano stati eseguiti i tamponi a soggetti già ricoverati che presentavano i sintomi della patologia o al personale sanitario venuto a contatto con un paziente risultato positivo e, ancora, nel caso in cui si sia provveduto alla chiusura di reparti all’interno dei quali veniva riscontrata la presenza di Covid-19 – difficilmente sarà contestabile al datore di lavoro/dirigente sanitario una condotta omissiva idonea ad integrare l’evento – contagio in quanto il rispetto scrupoloso delle prescrizioni potrà essere fatto valere a fronte di future contestazioni.
Diversamente, l’omissione delle cautele in capo al datore di lavoro configurerà la violazione
di cui al D.lgs. 81/2008, rientrando le strutture ospedaliere e assistenziali
nell’ambito dell’applicazione della disciplina relativa ai luoghi di lavoro.
Dal mancato rispetto di tali obblighi può discendere inoltre, in forza della cosiddetta clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p., una responsabilità penale per le fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose commesse, appunto, in violazione della normativa a tutela dell’igiene e della sicurezza sul lavoro.
Infine, vale specificare che, con specifico riguardo alle categorie dei medici, degli infermieri e degli operatori sanitari (sia che essi dipendano dal servizio sanitario nazionale o da una struttura pubblica o privata), l’INAIL ha precisato che debbano rientrare nella categoria degli infortuni sul lavoro i contagi contratti nell’ambiente lavorativo.
La responsabilità della struttura sanitaria come responsabilità amministrativa dell’ente ex D.lgs. 231/2001
Accanto alla responsabilità penale del datore di lavoro, potrebbe affiancarsi anche quella delle aziende sanitarie, pubbliche, private ed in regime convenzionato per la violazione del D.lgs. 231 del 2001, in quanto ritenute dalla Cassazione destinatarie di detta normativa.
Come noto, però, la responsabilità della società per l’illecito commesso da una persona fisica si configura soltanto laddove l’ente abbia conseguito un interesse o un vantaggio dalla commissione del reato.
Ciò sta a significare che nel caso di contagio da Covid-19 all’interno dell’ambiente lavorativo, l’interesse o il vantaggio dell’ente potrebbero essere ravvisati, ad esempio, nel risparmio conseguente al mancato acquisto dei dispositivi di protezione individuali (DPI) specifici.
In caso di riconoscimento della colpa di organizzazione, inoltre, all’ente potrebbero essere applicate, ex art. 9, D.lgs. n. 231 del 2001, sanzioni pecuniarie, interdittive, patrimoniali (confisca) nonché la pubblicazione della sentenza di condanna.
Tuttavia, non può non considerarsi che il mancato adeguamento delle misure di sicurezza alla situazione emergenziale potrebbe essere legato all’impossibilità di reperire i dispositivi sul mercato e che devono in ogni caso sussistere determinate condizioni per affermare la responsabilità della struttura sanitaria.
Anzitutto, il reato presupposto – posto in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente – deve essere stato commesso da un soggetto che rivesta funzione di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’Ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria o funzionale, nonché da persone che esercitino anche di fatto la gestione o il controllo dello stesso.
Secondariamente, l’ente deve essere sprovvisto di un adeguato Modello Organizzativo idoneo alla prevenzione del reato presupposto.
Conclusioni
La rapida diffusione del Covid-19 ha determinato la necessità di un altrettanto repentino intervento a livello nazionale.
Si ritiene che chi sarà chiamato a valutare le condotte degli operatori sanitari o di coloro che svolgono ruoli dirigenziali, dovrà, in primo luogo, tenere conto del fatto che all’inizio dell’emergenza circolassero poche ed imprecise informazioni sul nuovo Coronavirus e che molte di esse – soprattutto quelle che ne sottovalutavano la capacità diffusiva e gli effetti per la popolazione – sono risultate essere errate.
Senza dubbio tale aspetto dovrà essere valutato con riferimento alla colpevolezza e, in molti casi, potrà ridurre significativamente (se non addirittura escludere) la sussistenza dell’elemento soggettivo tipico delle fattispecie colpose sopra esaminate.
Quanto alla condotta degli operatori sanitari in particolare, dovrebbero essere previste delle norme ad hoc tenuto conto che l’art. 590 sexies c.p., espressamente inserito all’interno del codice con la Legge Gelli- Bianco, non risulta conforme alle specificità dell’emergenza Covid-19.
Difatti, il citato disposto prevede una causa di esclusione della punibilità per gli operatori sanitari incorsi nei delitti di omicidio colposo o lesioni personali colpose soltanto nel caso in cui:
1) l’evento morte o lesione si sia verificato a causa di imperizia, con esclusione delle ipotesi di negligenza e imprudenza e a prescindere da qualsiasi gradazione della colpa;
2) siano state rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida o le best pratices;
3) le linee guida o le buone pratiche siano adeguate al caso di specie.
A tal proposito appare quanto mai necessario rilevare che le uniche linee guida e le buone pratiche medico assistenziali sono soltanto quelle che si reperiscono sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità.
Da un lato, tuttavia, le linee guida non sono (ad oggi) certificate e risulta evidente che, quanto alle pratiche clinico assistenziali, trattandosi di una patologia prima di oggi sconosciuta, queste non possano ritenersi del tutto soddisfacenti mancando, allo stato, indicazioni precise in ordine alle terapie da seguire.
Tali considerazioni portano dunque a ritenere che sia dubbia la possibilità di riconoscere profili di responsabilità penale in capo ai soggetti citati sebbene ogni valutazione sarà da rapportarsi al caso concreto.